C’è chi rappa per moda, chi per sfogo, e poi c’è chi lo fa perché non ha altra scelta. DannyZ, classe 2004, non è mai stato il tipo da scorciatoie. Quando a 11 anni gli hanno detto che avrebbe dovuto reimparare a camminare, non ha chiesto quanto ci avrebbe messo. Ha abbassato la testa e ha iniziato. Passo dopo passo, terapia dopo terapia. E ora che ha imparato a stare in piedi, “a camminare due volte”, nessuno lo farà più sedere.
Così lo hanno definito giornali, radio e tv.
“Il rapper che ha imparato a camminare due volte.”
Un appellativo che non è solo una formula riuscita, ma una verità che ha fatto il giro dei media e si è fatta strada tra un pubblico sempre più vasto.
Perché la storia di DannyZ – romano, cresciuto tra tutori e fisioterapia – è una di quelle che non si dimenticano, se la ascolti davvero. E ogni volta che torna, non lo fa per occupare spazio. Lo fa per guadagnarselo.
Con “Tutto mio”, il suo nuovo singolo disponibile in tutti i digital store, DannyZ non bussa. Entra. E lo fa con il peso di chi ha qualcosa da dire. Il suo è un rap che cerca conferme, le brucia. Un rap che non è alla ricerca di consensi: li affronta di petto e li mette da parte.
Dopo “Sempre Più Su”, brano che raccontava il suo percorso fisico e interiore come un campo di battaglia, il giovane artista capitolino torna con un pezzo viscerale, diretto, privo di alibi. Un pezzo che non fa sconti, che non ha paura di dire le cose come stanno. E in cui ogni rima pesa quanto un metro di asfalto percorso a fatica. È il suono di chi ha mangiato amaro, e ora si prende tutto. Senza chiedere permesso.
Nelle barre di “Tutto mio”, DannyZ mette in chiaro da che parte sta:
«Non voglio il flex, voglio il rispetto»
Non si tratta di uno slogan ben costruito, ma di una sorta di mantra, da tenere stretto per affermarlo in faccia al mondo. Una linea netta tra chi ostenta e chi resiste. Un confine tracciato a voce ferma, quando tutto intorno ci ha abituati a far rumore per non dire niente. Perché certe frasi non basta scriverle: succedono. E quando succedono, non hanno bisogno di spiegazioni.
Nato prematuro a 25 settimane, cresciuto tra corsie d’ospedale, tutori e fisioterapia, DannyZ ha fatto del suo corpo una prova vivente di volontà. Ogni movimento che oggi riesce a compiere è frutto di fatica, e ogni sua release porta il segno di quella strada.
La disabilità non è un tema che “affronta”: è parte della sua storia. Non la esibisce, non la nasconde. Fa quello che tutti dovremmo imparare a fare: viverla con naturalezza, senza trasformarla in un’etichetta. E fa anche ciò che molti evitano: la tratta per quello che è — una parte di sé, non la sua definizione.
In “Tutto mio” non c’è l’ostentazione, né il bisogno di compiacere. Non è rap d’intrattenimento.
Non ci sono catene d’oro, solo catene spezzate.
Non c’è bling bling, ma cicatrici esibite allo stesso modo, come medaglie.
C’è rabbia, sì. Ma non quella sterile.
È lucidissima, pulita, necessaria.
Il beat spinge, ma è la voce che comanda: cruda, vissuta, mai artefatta.
Nelle barre c’è fame. Ma non di hype, fame vera. Di riscatto, di concretezza, di verità.
«Non cerco flash, non cerco gloria.
Voglio che il mio nome resti nella storia.»
Non è un’ambizione da rotocalco: è la voce di chi ha scelto di restare in piedi, anche quando sarebbe stato molto più semplice sedersi e lasciarsi andare — e lo ha fatto con il doppio della fatica degli altri.
Di chi scrive ogni singola parola sul terreno che ha già calpestato.
E che ora pretende solo una cosa: essere ascoltato per ciò che è, non per ciò che appare.
In una scena dove l’immagine pesa più della parola, DannyZ rallenta e mette a fuoco.
Ricorda che il rispetto non si compra, si guadagna.
Che i like non valgono una mano tesa, uno sguardo sincero, qualcuno che resta quando gli altri spariscono.
E che essere se stessi – oggi – è forse l’atto più street e rivoluzionario che ci sia.
“Tutto mio” è una pagina. Ma non di quelle scritte al computer: di quelle scritte sulle ossa. Di quelle che raccontano chi siamo stati e tracciano la traiettoria verso chi vogliamo diventare. È un pezzo che non cerca lacrime né applausi, ma vuole solo farsi sentire da chi è disposto ad ascoltare. Perché chi ha imparato a camminare due volte non ha più paura di inciampare.