Un caffè con Alfiere: tutto sulla sua vita e sul nuovo brano Il solito horror

Un caffè con Alfiere: tutto sulla sua vita e sul nuovo brano Il solito horror

Con grande riconoscenza diamo il benvenuto a Alessandro Pieri, aka Alfiere , artista poliedrico che sta spopolando nelle piattaforme musicali. Recentemente impegnato nella promozione del lavoro Il solito horror, condividiamo con felicità l’intervista a Alfiere , grati e onorati per il suo tempo e la cortesia riservataci! Avviciniamoci con garbo e curiosità al mondo musicale e personale, Alfiere si narrerà con quelle che sono le collaborazioni, tra le più importanti come quelle con ConzaPress, le esperienze, e i progetti futuri. Ma largo ai convenevoli, diamo un caloroso benvenuto a Alfiere !

Com’è nata tua la passione per la musica?

 

Da quando ho memoria: da piccolino mi divertivo a suonare qualsiasi oggetto e cantavo usando una spazzola come microfono quando mia madre andava dalla parrucchiera; non dicevo ancora la R, ma mi esibivo fiero davanti alle signore della mia cittadina. Oltre a questa parentesi imbarazzante, penso che il contesto familiare abbia avuto il suo peso. Mia madre fu costretta ad abbandonare canto e pianoforte per motivi di lavoro e salute dei miei nonni: era molto talentuosa e mi ha di certo trasmesso il suo amore per la musica e le grandi voci. Amava Whitney e in Italia Mia Martini, Dalla, Antonella Ruggiero, Mango, Giorgia. Con mio padre invece si usciva di rado dalla triade magica Battisti-Mina-Celentano, per lui quasi sacra, e allora mi parlava della storia di Giuni Russo e di Mia Martini, altrimenti si sfociava nel rock italiano (Vasco, PFM, New Trolls) e internazionale. Il festival di Sanremo era un appuntamento fisso.


Il personaggio può essere una maschera, protettiva quando ci esibiamo. Calato il sipario, chi troviamo dietro Alfiere e il suo personaggio?

 

Una persona complessa, soddisfatta del suo percorso umano e professionale, ma con molte ambizioni e qualche rimpianto per non aver potuto investire prima nella musica. La psicologia – gli studi, il lavoro, i percorsi personali – ha di certo arrotondato gli angoli più spigolosi della mia personalità e mi ha aiutato ad avere maggiore consapevolezza dei miei bisogni. Ma è stata anche un’occasione per trasmettere messaggi di valore a tanti bambini, ragazzi e adulti in difficoltà, a scuola o nella vita. Fare lo psicologo e il docente è a volte estenuante, specialmente se si vogliono fare altre cose in parallelo che richiedono molto tempo, come scrivere e cantare i propri brani. Però è anche molto gratificante e farei fatica, dopo anni di studio, formazione e lavoro, a separarmi da questo lato di me se dovessi riuscire a emergere come artista. Il mio grande sogno è riuscire a fare un po’ di tutto di ciò che mi identifica: psicologia, insegnamento, musica, scrittura. Incrocio le dita.


Come è stato concepito il singolo Il solito horror?

È partito tutto da un’intuizione o, forse meglio, da un’introspezione, che mi ha spinto a raccontare di me, dei miei sbagli, delle mie ostinazioni, delle frustrazioni, delle logiche perfette che invece si sono rivelate trappole mentali costruite ad arte. Ma soprattutto di come aver vissuto certe situazioni e incontrato certe persone mi abbia offerto gradualmente gli strumenti per vedere ciò che non vedevo, per imparare a fare scelte diverse. Volevo uscire con un pezzo concreto, comprensibile, spendibile, ma che non rinunciasse a trasmettere un messaggio psicologico profondo, positivo, di trasformazione. Spero di esserci riuscito.


Il brano è accompagnato da un video?

 

Sì, un bellissimo lavoro della filmmaker Lisa Marchiani e dei suoi collaboratori, girato vicino Parma, tutto in una giornata. Cose folli! Nel videoclip compaiono anche due miei collaboratori, Andrea Battisti, che in quanto stilista si è anche occupato degli outfit e della mia immagine in generale, ed Elena Stefanelli, make-up artist. Si può guardare qui:


Il singolo fa parte di una serie di uscite che culminerà in un disco?

 

Sì, esattamente. Il solito horror fa parte di un EP di cinque brani che si chiama Gradi di libertà. Sarà prodotto da Ludovico Clemente e dovrebbe uscire, completo, il prossimo anno.


Quali sono le tue influenze artistiche?

 

Come appartenenza a un genere non saprei, mi sento molto caleidoscopico. Ho sempre ascoltato musica italiana e seguito le influenze del pop e del soul principalmente. Apprezzo i testi importanti, ma mi conosco: bramo chi ha il dono, le voci talentuose, che travolgono nella loro potenza o con la loro delicatezza. A 6-7 anni ho sentito Giorgia per la prima volta ed è nato un amore artistico mai finito. Oltre a lei, Elisa, Antonella Ruggiero, Lucio Dalla, Mia Martini e altri ancora. All’estero senza dubbio l’inimitabile Whitney, Michael Jackson, Alicia Keys, Christina Aguilera, Jessie J… ma ho anche un’anima rock (alternative e prog soprattutto) e non disdegno influenze R&B e rap che ogni tanto contaminano i miei lavori. Nell’ascolto sono ancora più aperto. Potrei passare dai System of a Down alle sonorità celtiche in cinque minuti. Lo psicologo che è in me potrebbe sospettare personalità multiple.


Quali sono le tue collaborazioni musicali?

Sono appena nato artisticamente, dunque per il momento nessuna. Tanti sogni nel cassetto, ma non dico nulla per scaramanzia.


Quali sono i contenuti che vuoi trasmettere attraverso la tua arte?

 

Ci sono tanti temi che ho in mente, alcuni più intimi, altri di protesta sociale… altri ancora li sto concretizzando. Però se dovessi trovare un filo rosso, vorrei che la mia musica esprimesse il potere trasformativo dei desideri e delle esperienze. Sono due motori che muovono il mondo esterno e l’io: ciò che vogliamo, ciò che facciamo realmente, ciò che cerchiamo di costruire, aggiustando continuamente la mira. La musica in fondo è un canale privilegiato per veicolare messaggi e bisogna sceglierli con cura. Mi piacerebbe riuscire a trasmettere a chi mi ascolta qualche traccia di ciò che per me è stato benefico o comunque edificante. A volte bastano una parola o un suono o la loro combinazione perfetta per sbloccare un pensiero o un’emozione che sentiamo essenziali in quel dato momento, veri, utili a compiere un passo in avanti. Vorrei essere d’ispirazione e sentirmi anch’io parte di qualcosa che ci rende simili e vicini.


Ci parli delle tue precedenti esperienze di formazione e live?

 

Ho iniziato -come tanti, credo- andando al karaoke con famiglia e amici. Nel 2012 mi sono interrogato sul fatto che tutti mi dicessero che ero molto bravo, ma poi nessuno mi spingesse a fare qualcosa. Mi era sorto il dubbio che me lo dicessero solo per affetto. Così chiesi un parere al maestro Antonio Mirabelli, che si era formato al Vittadini, la scuola di musica più nota di Pavia. Il riscontro fu molto positivo, sulla voce e sui testi. Mi suggerì di lavorare con dei suoi colleghi per pensare a una produzione. All’epoca ero ancora molto acerbo e non avevo possibilità di investire economicamente essendo studente. Inoltre, sopraggiunsero alcuni problemi di salute che coinvolsero, indirettamente, anche la voce. Alla soglia della laurea in psicologia, dovetti interrompere. Feci qualche altra lezione qua e là negli anni, ma la vera svolta l’ho sentita nel 2019 quando ho trovato il team della scuola Milano in Voce. Oltre ad aver imparato moltissimo, ho conosciuto persone fantastiche e ho preso coraggio per fare i primi passi da cantante e autore. La strada è lunga, ma prima di tutto sento di aver bisogno di fare esperienze live, che purtroppo ancora mi mancano. È una necessità formativa, ma anche e soprattutto di espressione personale. Penso che possa davvero liberare la mia voce.


Cosa ne pensi della scena musicale italiana? E cosa cambieresti/miglioreresti?

 

La scena musicale italiana è molto prolifica, ma anche molto caotica e in continua, rapida evoluzione. La musica – l’arte in generale – è da sempre lo specchio del tempo in cui si vive, quindi se qualcosa ci piace o non ci piace nella musica, dovremmo interrogarci anzitutto su cosa vorremmo cambiare della società in cui viviamo, della vita che facciamo. Sento molto disagio e vedo anche tanta creatività. E fin qui, mi viene da dire che sia tutto normale: la musica è sempre stata l’espressione creativa di un disagio, no? Solo che sta cambiando il disagio, che non è più solo dolore o vuoto, ma progressiva alienazione. È un disagio che nasce da sentire tutto troppo e non riuscire a definire niente: un sentimento, un tempo, un genere, un limite. Spesso lo avverto in modo netto nella musica di oggi, questa indeterminatezza che passa anche dalla voce, questo sbiasciare parole e trascinare passi al grido di “boh!”. È pienamente rappresentativo e non può piacermi. Ma ancor meno mi piacciono i messaggi sbagliati, diseducativi, superficiali, velenosi, veicolata, il più delle volte, da un certo tipo di trap. Anche questi sono figli del nostro tempo, certo, ma ritengo che l’artista, per il potere comunicativo che ha, debba prendersi delle responsabilità maggiori. Come nella vita bisogna saper affrontare anche il dolore con profondità e responsabilità. Quando nell’arte vedo entrambe queste cose ho speranza. Due esempi? Michele Bravi nel concept album la Geografia del Buio e Mr. Rain in Petrichor. Spaziali.


Oltre al lavoro in promozione quale altro brano ci consigli di ascoltare?

 

Prima di uscire con Il solito horror, ho lavorato a un progetto di cinque cover che aprisse la strada all’idea di parlare di psicologia attraverso la musica. Tra tutti i brani scelti, la mia cover di Scopriti, di Folcast, è certamente quella che mi è rimasta di più e che consiglio anche a voi di ascoltare. È in assoluto il primo brano con il quale ho deciso di mostrare il mio lato artistico al pubblico.


Come stai vivendo da artista e persona il periodo del covid-19?

 

Mi sento molto fortunato: non ho avuto il covid e non ho subito lutti o esperienze traumatiche nella mia famiglia e tra gli amici più cari: un lusso. Come psicologo ho vissuto e vivo tuttora le conseguenze emotive e sociali sulla vita e sul percorso scolastico di molti bambini e adolescenti: ci sarà moltissimo da lavorare per ricostruire un contesto educativo e relazionale di maggior benessere. In generale, penso che la pandemia ci abbia concesso anche l’opportunità di avere uno sguardo più ampio. Seppur in tempi diversi o con esperienze diverse, ciascuno di noi nel proprio percorso deve fare i conti con nodi difficili da sciogliere e con freni che limitano la nostra libertà espressiva e di sviluppo. E questo ci fa sentire più simili, più vicini, meno soli. Uno scopo che la psicologia e la musica hanno, secondo me, da sempre in comune. 


Quali sono i tuoi programmi futuri?

 

Mi sono iscritto a un importante concorso nazionale: saprò qualcosa a febbraio-marzo, ma spero possa essere una bella occasione. Nel frattempo continuo a lavorare sul mio secondo singolo e sto anche preparando una cover natalizia. Se mi chiedi di guardare più lontano, non so cosa dire. So che è molto dura emergere, ma certamente voglio provare a fare la differenza e quindi non mi fermerò al primo EP o al primo concorso, ma continuerò a scrivere, fare esperienze e insistere con la determinazione che penso mi caratterizzi.