«Con tutto il male che Dio m’ha portato, l’ho trasformato ma senza peccato». Una frase che da sola basta a definire il tono di “Occhi Chiusi”, il nuovo singolo di DannyZ: un brano che sceglie il rap non per ostentare, ma per affrontare le contraddizioni di chi cresce senza certezze, in un Paese in cui i giovani hanno perso i riferimenti tradizionali e cercano nuove forme di significato, nuove parole per definirsi.
In un’Italia di riferimenti culturali e sociali che per i più giovani sembrano sgretolarsi — famiglia, religione, lavoro — il rap si conferma una delle poche forme espressive capaci di tenere il passo. Secondo recenti dati ISTAT (2022) – meno del 19% della popolazione italiana frequenta regolarmente luoghi di culto; tra adolescenti e ventenni la quota scende intorno al 12%. Ma la ricerca di spiritualità e significato, non scompare: si sposta altrove. Nei social, nell’arte, nella musica. E il rap, che secondo FIMI resta, insieme al pop, il genere più ascoltato in Italia, diventa sempre più spesso un luogo di introspezione. Dove si scrive per raccontarsi e si racconta per non sparire. E si ascolta, per sentirsi capiti. Da questo quadro si evince quanto il genere stia sempre più prendendo piede non solo come forma di intrattenimento, ma come linguaggio identitario e culturale di una generazione che cerca voce, spazio e legittimazione.
E proprio in risposta a questo bisogno di nuovi linguaggi — dalla scuola alla politica, fino alla TV — il rap, soprattutto la sua vena malinconica e riflessiva, sta vivendo un’evoluzione significativa, tornando a farsi spazio come strumento di racconto e consapevolezza. Non è una funzione nuova: il rap nasce da lì, da una scrittura che prende parola dove le istituzioni tacciono. Ma oggi, con il venir meno dei canali di ascolto tradizionali, quella funzione si radicalizza. Il risultato è una narrazione che non cerca di piacere ad ogni costo, ma la verità; che non parla per una generazione, ma dentro una generazione. Una scrittura che assorbe frustrazioni, rabbia, disillusione, solitudine — e le rimette in circolo sotto forma di racconto. A volte crudo, spesso più vero del previsto.
Non è un caso che molti critici abbiano accostato il rap contemporaneo alla scrittura diaristica: un registro che parte dall’intimità per farsi specchio sociale. Da Pavese ai rapper di oggi, la spinta resta la stessa: annotare frustrazioni, desideri e paure non per sé, ma perché diventino riconoscibili da altri.
Per chi non ha strumenti, reti, possibilità concrete, il rap resta uno degli ultimi spazi di espressione possibile. Una forma di cultura, una narrazione alternativa, che non ha bisogno di mediazioni, esiste anche fuori dai canali ufficiali e si prende lo spazio che non le viene dato.
DannyZ lo ha scelto — o forse è il rap che ha scelto lui — proprio per questo: perché non aveva altri modi per raccontarsi, per farsi ascoltare. “Occhi Chiusi” è anche questo: il tentativo di rendere un’esperienza personale qualcosa che altri possano riconoscere come propria, pur non essendola. Qualcosa che trovi eco fuori da sé, che si apra, senza diluirsi. Non per rappresentare tutti, ma per dire “ci sono anch’io”.
Ferite personali e parole che cercano una forma di pace. Con “Occhi Chiusi”, l’artista romano porta questo bisogno di senso al centro. «Ho fame vera, non solo di cash», scrive, contrapponendosi al mainstream dell’ostentazione. E ancora: «Parlano troppo ma non sanno niente, di chi scrive con i nodi in pancia, di chi punta tutto senza garanzia, per un posto dentro la discografia». Un passaggio che condensa il senso di precarietà, il bisogno di riconoscimento, la fatica di provarci davvero. Una generazione che non ha certezze, ma continua a bussare per un posto, una voce, una chance.
Sempre più studi accademici e saggi, inoltre, parlano di rap come di una nuova forma di espressione spirituale: non nel senso religioso del termine, ma di linguaggio in grado di raccogliere il bisogno di senso e trasformarlo in qualcosa che parli a tanti, anche quando nasce da uno. Un legame, un riconoscimento reciproco. “Occhi Chiusi” si colloca esattamente in questo filone. Non c’è esibizione, millanteria, né compiacimento: c’è la fede laica di chi ha attraversato il buio senza spegnersi («Ho visto il buio senza spegnermi, ho stretto i denti per difendermi») e ha trasformato le cicatrici in qualcosa che somiglia a una medaglia. DannyZ non è interessato al flex, ma al rispetto. La sua non è una ricerca di flash o gloria effimera, ma di parole che possano rappresentare chi le ascolta.
Il brano conferma la crescita di un sound maturo e curato, con una produzione che guarda alle atmosfere dell’urban francese (PNL, Lomepal, Dinos) e alla scrittura introspettiva di artisti come slowthai o loyal karner. Una linea sonora che si muove in sintonia con la tendenza globale delle playlist sad rap e melancholy rap, cresciute del 30% negli ultimi due anni su Spotify. “Occhi Chiusi” si ascolta per quello che dice, ma anche per la sua densità sonora, che lo posiziona tra le proposte di maggior spessore della nuova scena urban italiana.
«”Occhi Chiusi” parla della mia corsa verso i sogni, anche quando intorno c’è solo confusione e incertezza. Racconto i momenti di buio, le delusioni e le volte in cui mi sono sentito perso, ma anche la forza che ho trovato per rialzarmi. Voglio che chi mi ascolta si senta meno solo, e capisca che anche nelle notti più dure c’è sempre un modo per andare avanti.» – DannyZ
Già definito dai media come “il rapper che ha imparato a camminare due volte”, DannyZ oggi porta la sua storia oltre l’etichetta. Non è più solo il ragazzo che ha superato la disabilità: è una voce credibile della scena italiana, che trasforma la fatica in parole e il dolore in suono.